Giorgio De Chirico, il volto della metafisica


Buongiorno, cari lettori e lettrici. Oggi vorrei parlarVi di una conferenza a cui ho partecipato come ascoltatrice dal titolo “De Chirico pittore metafisico” tenuta dall’illustrissimo professore Daniele Grosso presso la Biblioteca dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere (Palazzo Ducale) e della conseguente mostra "Giorgio De Chirico, il volto della Metafisica". Egli, con la Sua immensa cultura e preparazione professionale, è riuscito a mostrare in modo completo ed esaustivo sia le capacità pittoriche di De Chirico che il lato umano dell’artista stesso. Ringrazio affettuosamente Daniele Grosso per il grande contributo fornito al campo delle belle arti.



Nel presente articolo vorrei non solo condividere con Voi la mia esperienza, bensì mostrare le mie impressioni e sensazioni sulle opere di De Chirico e creare spunti di riflessione.

 
.: Introduzione :.
Giorgio De Chirico fu un personaggio alquanto singolare. Egli non ha semplicemente dipinto, bensì ha creato un vero e proprio linguaggio pittorico/filosofico che ha influenzato i suoi contemporanei e successori.
Greco di nascita (Volos 1888), ha sempre mostrato sin dalla tenera età una certa inclinazione all’arte. Il padre Evaristo fu un importante ingegnere ferroviario e fu incaricato della costruzione della prima rete ferroviaria in Grecia. Dopo la sua morte, Giorgio e il fratello Andrea Alberto (il quale cambierà successivamente nome in “Alberto Savinio”) si trasferirono in Italia insieme alla madre. Ella fu una figura cruciale nella formazione dei due ragazzi e favorì le loro inclinazioni artistiche.

Giorgio iniziò a studiare arti pittoriche presso il Politecnico di Atene e, sempre spinto dalla madre, frequentò l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e di Monaco di Baviera. L’ammirazione nei confronti della madre è nota anche attraverso la pittura di De Chirico, il quale le dedicò numerosi ritratti.



Il fratello invece fu grande musicista (pianista) e, nonostante la modifica del nome faccia pensare il contrario, fu molto legato a Giorgio. 

.: Il viaggio e la pittura metafisica :.
 Uno dei temi più importanti trattati da De Chirico nelle sue opere è stato sicuramente quello del “viaggio”, sia a causa dei vari spostamenti del padre che per le proprie “peregrinazioni”. Nonostante vedere posti nuovi fosse per lui fonte di arricchimento personale, il suo più grande desiderio fu quello di fare ritorno alla propria “casa”.  Uno dei quadri della mostra che mi ha lasciato a bocca aperta è stato sicuramente “Ulisse (autoritratto)” del 1922. De Chirico ha raffigurato se stesso nei panni di Ulisse, il quale indica l’orizzonte/il mare con la mano per esprimere il proprio desiderio di ritornare a Itaca, la propria dimora.



 
Il suddetto desiderio è evinto da un’altra opera, esposta verso la fine della mostra di Genova, denominata “Il ritorno di Ulisse” (1968). De Chirico, raffigurato in veste di Ulisse su di una barca, naviga in un mare che, attraverso la trasfigurazione metafisica, è traslato all’interno della propria abitazione. A parer mio il mare potrebbe avere numerosi significati: in primis l’insieme dei ricordi che Giorgio ha raccolto durante i suoi viaggi e in secondo luogo il desiderio di ritornare a casa e di non spostarsi più.
La stanza mostra sulla destra una porta aperta da cui s’intravede un’ombra scura: essa descrive l’ignoto e la possibilità in futuro di poter incontrare dei cambiamenti che potrebbero far allontanare De Chirico dalla propria dimora verso altri viaggi e altre peripezie.




Come forse qualcuno avrà notato dai quadri precedenti, De Chirico è stato uno dei più grandi esponenti della cosiddetta “Pittura Metafisica”. Il suo stile si è interfacciato con diverse correnti pittoriche: tuttavia, come giustamente afferma il professor Grosso, tutte le opere mostrano sempre mostrato un velo metafisico.
L’artista è stato influenzato dai concetti filosofici di Nietzche. Il suo pensiero era basato sull’idea che la realtà che ci circonda non è solo quella fisica e che noi possiamo osservare con la vista, bensì quella nascosta, ignota e che può essere captata solo con gli occhi della mente.
La metafisica è stata una presenza continua e permanente, anche quando De Chirico stesso avrebbe desiderato rifiutarla e distaccarsene. Secondo il pensiero metafisico il pittore è il rappresentante di questa realtà ignota, una specie di profeta con occhi in grado di captare ciò che il pubblico non riesce a percepire (la cosiddetta “epopteia”, cioè “l’occhio del veggente”) al fine di poter scoprire “il velo di maya” (riferimento a Schopenauer). Di conseguenza De Chirico si sentiva in dovere di adempiere il proprio compito: mostrare ciò che il soggetto comune non riusciva a cogliere.
Da qui si nota l’ego smisurato dell’artista: si dice che fosse arrogante, egoista ed estremamente narcisista. Difatti egli ha dipinto oltre cento autoritratti e si è firmato tante volte come “Pictor Optimus” (la modestia non era il suo forte…).

Caratteristica peculiare dei quadri metafisici è l’assenza della concezione del tempo che scorre. Le scene sembrano inserite in un mondo nascosto e segreto che è al di là del tempo umano. Tale pensiero proviene sia dal filosofo Nietzche che anche da Eraclito (il famosissimo “Panta Rhei”, cioè “tutto scorre”). Il tempo non esiste, bensì è solo una concezione umana creata dalla realtà illusoria del velo di Maya che distoglie dalla vera essenza dell’esistenza.

Oltre che dal pensiero metafisico, il suo stile è stato influenzato anche dalle correnti pittoriche del passato. De Chirico, infatti, studia meticolosamente le tecniche degli artisti che l’hanno preceduto (compresa la tempera grassa, abbandonata tra il 1400 e il 1500 a favore della pittura a olio).
La sua pittura attraversa tre diversi momenti cruciali, ognuno dei quali caratterizzato da una sorta di “rivelazione”:
  • ·      1910: a Firenze la rivelazione della Metafisica;
  • ·      1919: la rivelazione della pittura classica tramite le opere di Tiziano;
  • ·    1938: la rivelazione barocca al Louvre di Parigi con i quadri di Velazquez (da questo periodo in poi egli si firmerà come “Pictor Optimus”).

Nonostante l’avvicinamento alle tecniche pittoriche antiche, egli ritornerà sempre alla metafisica e, soprattutto durante gli ultimi anni, unirà le suddette al pensiero metafisico creandone un’armonia perfetta.



.: La consapevolezza della metafisica :.
Una figura che ha avuto importanza fondamentale nella vita di Giorgio è stata sicuramente Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky, il quale introdusse De Chirico presso il gallerista Paul Guillaume (che ha esposto anche le opere di Picasso) a Parigi. Apollinaire è stato il primo a definire i quadri di De Chirico come “metafisici” nelle sue recensioni pubblicate nel 1913. L’amicizia tra i due era talmente intensa da ispirare De Chirico nella creazione di un ritratto ad hoc.


Esistono due tipologie di opere che rispecchiano questa corrente: gli “esterni” e gli “interni metafisici”.
I primi sono rappresentati dalle famose “piazze” in cui il tempo e la prospettiva sono completamente stravolti, i secondi sono raffigurati come degli spazi angusti in cui si trovano degli oggetti accatastati in modo apparentemente disordinato e confusionario.

La nascita del pensiero metafisico nella mente del pittore scaturì nel 1910 al crepuscolo di una giornata autunnale. Egli si trovò a Piazza Santa Croce a Firenze seduto su di una panchina e, reduce dai postumi di una malattia intestinale, iniziò a osservarla come se fosse stata la prima volta. Egli si chiese il perché di quella sensazione, giacché l’aveva vista tantissime volte in precedenza: la situazione scaturì in lui il dubbio, la confusione mentale, l’oblio e soprattutto “l’enigma”. Giorgio non dimenticò mai in tutta la sua vita quella visione e la trasmise all'interno dei quadri poiché questi ultimi, secondo il suo pensiero, erano proprio scaturiti da quella primordiale sensazione captata e conservata nella mente. Da qui De Chirico dipinse “Enigma di un pomeriggio d’autunno” (1910), in cui la visione della piazza è totalmente stravolta.




La chiesta gotica e la statua di Dante diventano rispettivamente un tempio e una statua greci, la prospettiva è completamente sfalsata per dare la sensazione di angoscia (caratteristica dell’enigma irrisolto) e le ombre sia della statua che dei due soggetti posti accanto ad essa sono allungate in modo spropositato per dare l’idea di un qualcosa di ignoto rispetto alla realtà fisica in cui si continua a vivere.
Il tema del viaggio è sempre ricorrente: sullo sfondo s’intravede una nave contemplata dai due soggetti protagonisti del quadro. Penso che essi rappresentino i due fratelli De Chirico raffigurati in veste di Argonauti alla ricerca del vello d’oro, cioè intenti nel risolvere in qualche modo quell’enigma che li affligge. D’altra parte già nel 1909, precedentemente alla prima rivelazione, De Chirico dipinse “La partenza degli Argonauti” in cui raffigurò se stesso e il fratello nell’intento di partire per la ricerca del vello. 

Sia De Chirico che Nietzche davano molta importanza al crepuscolo come momento della giornata in senso metafisico in quanto essi credevano che durante il tramonto si riuscisse a meditare in modo efficace.

Egli avrà un periodo in cui baserà tutto il proprio lavoro e il proprio interesse sulla metafisica per poi passare all’arte classica/romantica e, negli ultimi anni della sua vita, ritornare alla metafisica stessa.
Purtroppo la mostra di Genova non ha esposto opere del primo periodo metafisico di De Chirico: tuttavia è importante ricordarlo per i primi approcci che ha avuto il pittore nel proprio modo di interpretare la realtà.

Nel caso delle “piazze” tutte le dimensioni sono stravolte e trasfigurate dal dogma enigmatico. Per la cosiddetta “urbanistica metafisica” s’ispirò a piazze realmente esistenti italiane, tra cui anche quelle torinesi e ferraresi, e le alterò al fine di dare enfasi allo spaesamento enigmatico.
  


Nelle piazze un elemento importante è costituito dalla torre: simbolicamente essa rappresenta il desiderio umano di elevarsi verso l’infinito o verso un qualcosa di irraggiungibile. Nonostante l’aspirazione umana, l’uomo è destinato a restare sulla terra nella quotidianità della piazza senza poter mai risolvere il dilemma che lo travolge. Talvolta le torri sono delle rappresentazioni trasfigurate di edifici già esistenti, come la Mole Antonelliana, oppure riproduzioni di elementi di varie opere degli artisti del passato, ad esempio “La liberazione dell’eretico Pietro d’Assisi” di Giotto.

Credo che il riassunto del pensiero di De Chirico sia presente in “Piazza d’Italia con fontana” del 1968, esposto alla mostra di Genova.


Al centro della scena, lontano prospetticamente rispetto all’occhio dell’osservatore, troviamo sempre la torre contemplata da due soggetti non ben identificati. I due uomini proiettano ombre di dimensioni nettamente spropositate rispetto alle loro figure, mentre la torre non ne presenta alcun tipo. Ciò simboleggia la verità limpida e cristallina della torre e la permanenza dell’uomo nella realtà fisica, con la conseguente impossibilità di risolvere l’enigma.
Il tema del viaggio è sempre presente: difatti accanto alla torre scorgiamo un treno con la locomotiva rivolta verso di essa. Questa raffigurazione potrebbe essere interpretata, a mio avviso, collegando due desideri differenti di De Chirico: in primis la voglia di ritornare a casa, in secondo luogo l’aspirazione, attraverso un lungo viaggio metafisico, a voler raggiungere la verità raffigurata dalla torre.
Una fontana con acqua limpida che sgorga da essa è riprodotta prospetticamente in direzione della torre, mentre i porticati oscuri non solo la rendono in ombra, bensì danno anche la sensazione di angoscia per via dell’utilizzo di una prospettiva diversa rispetto a quella della fontana stessa.
La fontana assomiglia quasi ad una tomba da cui sgorga la vita (illustrata dall’acqua). Si tratta di un enigma metafisico in cui la morte, così come il tempo, rappresenta una vana illusione dell’uomo. Solo prostrandosi verso la torre e non lasciandosi intralciare dai porticati, la morte stessa diventa vita pura e l’uomo può raggiungere l’illuminazione.

Il suddetto quadro è un esempio di cosiddetto “esterno metafisico”. In precedenza abbiamo parlato anche degli “interni metafisici”, cioè ambienti in cui oggetti di grandi dimensioni sono accatastati apparentemente in modo casuale in uno spazio angusto.
Un esempio d’interno metafisico è “La meditazione di Mercurio” del 1973. Mercurio, il messaggero degli dei e della realtà metafisica, è raffigurato in uno stato meditativo. Osserva oggetti accatastati cercando di comprendere lo sfasamento metafisico da essi rappresentato.
Lo spazio è ristretto e mostra gli oggetti su di un parquet in legno che potrebbe rappresentare una stanza o addirittura un palcoscenico. Nello spazio suddetto la metafisica stravolge gli oggetti dalla loro naturale posizione: la torre è posta sul palcoscenico, ma allo stesso tempo di fronte ad essa troviamo una scatola contenente dei dolcetti (probabilmente biscotti ferraresi che De Chirico amava tanto).
Vi è la traslazione tra esterni e interni: la torre dovrebbe essere all’esterno della stanza, tuttavia alle spalle di Mercurio c’è una finestra che affaccia su di un cielo limpido. Egli non è in grado di coglierla poiché troppo impegnato ad occuparsi delle questioni di vita quotidiana che lo distolgono dalla risoluzione dell’enigma. 


Nei quadri di De Chirico scorgiamo anche un mix tra gli esterni e gli interni metafisici, come si evidenzia nell’opera “Armonia della solitudine” del 1976, in cui in una stanza con oggetti accatastati in modo casuale troviamo uno scorcio che potrebbe raffigurare un esterno metafisico. Il suddetto potrebbe essere interpretato come una finestra vera e propria o semplicemente un quadro.


 
In questo dipinto si evincono riferimenti importanti al lavoro del padre: squadre e righelli predominano la scena.
Sembra quasi che siano rappresentati tre ambienti diversi: il primo in fondo al “palcoscenico” con la veduta della piazza, quello centrale con un mix tra oggetti geometrici e oggetti più classicheggianti e un altro, prossimo all’occhio dell’osservatore, con soli oggetti geometrici. Questo dipinto vorrebbe quasi raccontare il viaggio di De Chirico a partire dalla quotidianità degli oggetti geometrici  del terzo ambiente per poi man mano arrivare alla piazza dove avrebbe la possibilità di sciogliere l’enigma.

S’incontrano talvolta anche riferimenti all’arte classica. Nell’opera “Il grande trofeo misterioso” le due aperture ai lati della stanza e l’albero raffigurato al centro potrebbero essere considerati alla stregua di finestre o di veri e propri quadri. Ciò denota una trasfigurazione metafisica in cui il soggetto non è sicuro della realtà che osserva: si tratta di quadri (quindi mi trovo all’interno) o di finestre (esterno)? Probabilmente non lo sapremo mai.


Da notare che il quadro posto al centro possiede la stessa forma della fontana/tomba della vita che abbiamo visto in “Piazza d’Italia con fontana” del 1968. Mentre nel quadro di esterno metafisico l’elemento vitale era rappresentato dall’acqua, qui è descritto da un albero, simbolo della vita e della corretta via da intraprendere per risolvere l’enigma.
Per evidenziare l’importanza che De Chirico attribuiva alla storia, troviamo nello spazio metafisico degli elementi all’architettura classica. Probabilmente la vicinanza dell’albero a questi elementi simboleggia l’importanza della ricerca della verità tramite anche l’antichità, senza però farsi trasportare da piccolezze inutili che ci distolgono dall’obiettivo.

.: I manichini e gli archeologi :.
Ripercorrendo il pensiero di Nietzche, De Chirico introdusse nella pittura metafisica i cosiddetti “manichini”. Essi hanno delle fattezze che di differenziano rispetto a quelle umane in quanto sono una trasposizione metafisica della figura del pittore visionario.
Un esempio lo abbiamo con l’opera “Trovatore” della seconda metà degli anni Cinquanta. Il trovatore è una figura itinerante medievale che, spostandosi di corte in corte, non solo osserva le cose del mondo, bensì le racconta e rende partecipe il pubblico delle proprie esperienze (tema del “viaggio”). Il pittore reputa se stesso una sorta di “profeta” intento nella divulgazione della verità che sta oltre le cose materiali.
Il manichino è una figura che esula dalle fattezze umane in quanto non ha braccia e i suoi due occhi sono trasfigurati in un unico occhio onniveggente, osservatore della verità. Il suo atteggiamento è quello di una persona stanca del mondo fisico, pensierosa  e intenta sicuramente nel risolvere l’enigma.


 
Di questo filone abbiamo anche “Ettore e Andromaca” in cui i due soggetti, tratti ovviamente dal poema epico dell’Iliade, non potranno mai più riabbracciarsi per il destino cruento che Ettore dovrà affrontare. In questo caso la trasfigurazione metafisica esprime il fulcro degli avvenimenti che avranno luogo di lì a poco e la situazione successiva di separazione dei due coniugi.


Da notare che strutturalmente i manichini presentano elementi geometrici che ricordano il lavoro del padre di Giorgio (squadre, righelli, ecc..). Essi sono sorretti alle spalle da questi stessi elementi. Questo aspetto mi ha fatto riflettere e potrei concludere che Giorgio fosse da un lato oppresso dal padre, ma allo stesso tempo Evaristo (e il suo ricordo dopo la morte) costituì la forza con cui il pittore riusciva ad andare avanti. Ho intuito questo anche perché durante la mostra è stato esposto un altro quadro, “Il Figliol prodigo” del 1975 (quindi degli ultimi anni di vita di De Chirico), in cui Giorgio si è ricongiunto sia con l’arte classica che anche con il padre stesso.


Passiamo ora alla serie di quadri che io preferisco in assoluto di De Chirico: gli “Archeologi”. All'apparenza potrebbero essere confusi con i manichini, tuttavia gli archeologi esibiscono delle differenze che li rendono più umani e meno metafisici rispetto ai fratelli manichini.
Un dipinto che mi ha lasciato senza parole è intitolato proprio “Gli Archeologi” del 1940. Questi non hanno la struttura corporea composta da elementi geometrici incastrati tra loro, bensì si sorreggono da soli. Probabilmente la fonte della loro forza sta nel fatto che essi hanno quasi “ingurgitato” elementi storico/artistici importanti. Dal loro busto, infatti, traspare un insieme di oggetti che provengono dall'antichità. Gli archeologi rappresentano per De Chirico i custodi del passato da cui prendere spunto per poter essere in grado di risolvere più efficacemente l’enigma.
A differenza dei manichini, gli archeologi hanno braccia, sono di solito in coppia o talvolta mostrano anche intere famiglie. Rappresentano la storia e il tesoro dei ricordi tramandati dalle generazioni passate a quelle future.
Le gambe non sono particolarmente lunghe e le due figure tendono quasi a fondersi tra loro in un clima di condivisione dell’antica saggezza.


E’ affrontato in tal senso anche il tema dell’amicizia, come nel quadro “Oreste e Pilade” del 1960. I due amici inseparabili condividono le loro esperienze e, quasi come inseriti in un simposio platoniano, fanno fiorire discorsi sull’antichità.


.: L’arte classica e gli ultimi avvenimenti :.
 Dopo aver visto i quadri di Velasquez al Louvre di Parigi, De Chirico si avvicina all’arte classica, barocca e romantica e ha un vero e proprio ricongiungimento con queste.
La metafisica è sempre una presenza predominante nelle sue opere: tuttavia riesce ad inserirla in un contesto del tutto nuovo e la inquadra in scene e situazioni tipiche dell’antichità.
Ritrae se stesso con vestiti nobili del 1600 che si faceva prestare dal Teatro dell’Opera di Roma e crea di conseguenza uno scompenso metafisico in cui egli stesso si sente parte di un’altra epoca storica.


 
Mentre in Francia l’artista era molto ammirato e si è avvicinato anche ad altre correnti contemporanee (tra cui il surrealismo e il cubismo), in Italia Giorgio non fu particolarmente apprezzato a causa del gusto prettamente classico che prevaleva a quei tempi. Di conseguenza, sia per approfondire le tecniche pittoriche antiche che per avere cassa facile, De Chirico iniziò a dipingere opere che si distaccavano dalla metafisica.
Non solo egli ha studiato gli artisti del passato, bensì ha adoperato anche le  loro stesse tecniche pittoriche (ricordiamo che in precedenza abbiamo accennato all’utilizzo della tempera grassa).
Di seguito si mostrano esempi di quadri che ricordano le “Bagnanti” di Renoir, una riproduzione fedelissima de “La Gravida” di Raffaello , nature morte e una riproduzione tramite tempera su tavola di una natura morta ripresa dalla Casa del Fauno dell’antica Pompei.





Tuttavia l’artista non riesce ad abbandonare il pensiero metafisico. Lo vediamo soprattutto in due opere: la “Testa di fanciulla da Perugino” e in “Corazze con cavaliere”.
Il primo dei due quadri rappresenta il volto della fanciulla, il quale non è altro che la copia del viso dell’Arcangelo Michele tratto da Perugino. Si tratta di un risvolto metafisico in quanto da un volto prettamente maschile si passa ad un altro totalmente femminile.


Un altro cambiamento metafisico è dato da “Corazze con cavaliere”. Apparentemente quest’opera rappresenterebbe una natura morta, ma sullo sfondo notiamo un paesaggio con un cavaliere che apparentemente non c’entra nulla con la natura morta stessa (quasi posta su di un “palcoscenico” come nei quadri veri e propri di metafisica). Vi è sempre una trasfigurazione tra interni ed esterni.
Il cavaliere è un tema che deriva dalla letteratura e in questo caso De Chirico si rifà ad Ariosto. 


Durante gli ultimi anni della sua vita, De Chirico ha vissuto, insieme alla seconda moglie Isabella (protagonista di molte sue opere come modella), a Roma e ha anche soggiornato saltuariamente a Genova. Era particolarmente legato alla città ligure in quanto amico di Roberto e Rinaldo Rotta, i quali tenevano la galleria d’arte moderna in centro a via XX Settembre. Roberto aveva conosciuto Giorgio e Carlo Carrà presso l’ospedale neurologico di Ferrara, in cui De Chirico fu ricoverato per problemi di depressione.
La mostra di Genova si chiude in modo alquanto simpatico e ironico esponendo nelle ultime sale non solo i quadri in cui l’artista aveva dipinto i paesaggi della riviera, ma anche con un fiasco di vino regalato da De Chirico stesso ai fratelli Roberto e Rinaldo Rotta “Per non dimenticare…” le serate trascorse insieme.


Con quest’ultima curiosità, Vi auguro un buon proseguimento e spero che la lettura del presente post sia stata per Voi un ottimo passatempo.

Nox!

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